Discutiamone…..economia e politica !!
Scritto da Scoiattolina il 14 Marzo 2011 | 27 commenti- commenta anche tu!
Il capitalismo, l’etica e la crisi
E’ un articolo di Giorgio Ruffolo, pubblicato su la Repubblica del 7 luglio 2010 alla pagina 29.
Gli argomenti sono difficili ma, poiché essi appartengono ai “fondamentali” dell’economia, non possiamo non affrontarli. Vuol dire che cercherò di chiosarli in parentesi per facilitare la lettura. Quanto poi alle risposte finali, dedicherò un piccolo commento perché è facile scivolare dall’analisi, per quanto dotta, al “nulla” della sola denuncia, facendo il gioco di questo o di quello (partiti, gruppi, interessi vari, ecc.). Proprio quello che non vogliamo fare noi di “Discutiamone”. Vogliamo solo che gli argomenti siano chiari e che gli stessi siano capiti. Poi ognuno può farsi le opinioni che crede e, auspicabilmente, che le esponga agli altri amici. L’augurio è che, anche in questi campi difficili, possa nascere un colloquio.
Scrive Ruffolo:
“Parto dalla affermazione apparentemente paradossale secondo cui la marea nera del Golfo del Messico (il petrolio allora
fuoriuscito da un tubo) è assimilabile alla crisi finanziaria mondiale. Ambedue sono pulsioni di un capitalismo sregolato. Nel primo caso la sregolatezza consiste nell’uso ideologicamente ed economicamente dissennato di risorse scarse (ma è davvero dissennata la ricerca di petrolio nelle viscere della terra in mancanza di risorse alternative?). Nel secondo, nel ricorso frenetico e altrettanto dissennato a risorse inesistenti: i risparmi delle generazioni future (perché gli impieghi vengono “forzati” comprendendo in essi anche risorse che non ci sono).
Nel primo caso il capitalismo si avvia a una crescita impossibile (più che impossibile, inauspicabile, direi). Nel secondo, ad una altrettanto impossibile mercatizzazione del futuro (un futuro che surrettiziamente viene compreso nel presente). Quanto al primo, sono ormai sotto gli occhi di tutti le conseguenze: effetto serra, inquinamento, rifiuti. Il secondo è stato invece, fino a ieri, vantato come il più prodigioso successo storico del capitalismo.
Il vero successo storico del capitalismo era stata la realizzazione, nei primi decenni del dopoguerra, in Occidente, di un patto tra capitalismo e democrazia, un compromesso socialdemocratico in Europa e liberaldemocratico negli Stati Uniti, che associava la promessa della prosperità economica a quella di una crescente equità sociale (intendiamoci, si parla di “patti” ma in realtà sono state politiche promosse dai governi, presupponenti intese che permeavano il funzionamento dei sistemi economici: a ognuno veniva riconosciuto il suo, in una logica di sviluppo condiviso).
Quel compromesso è stato spazzato via dalla liberazione dei movimenti di capitale (e delle persone, aggiungerei). La globalizzazione che ne è risultata ha rovesciato i rapporti di forza tra i Governi e le Multinazionali, tra il capitale e il lavoro, tra la
politica e l’economia. Ha generato un enorme e crescente squilibrio tra redditi di lavoro e redditi di capitale (io penso che abbia prodotto più che altro aspettative di guadagno più che guadagni reali e mutamenti nei ceti per cui le categorie tradizionali hanno assunto connotati diversi dal consueto nei vari paesi del mondo). Questo squilibrio avrebbe potuto resuscitare i conflitti rovinosi dell’anteguerra. Furono evitati grazie ad una “mossa del cavallo”: al ricorso massiccio e disinibito all’indebitamento (osservo che le mosse, in genere, non sono mai quelle, a tavolino, degli scacchi, ma quelle suggerite dalle esigenze di funzionamento dei sistemi: quelle, peraltro, dalle quali traggono sostentamento tutti, compresi i lavoratori, che dovrebbero trovare e realizzare “sistemi” alternativi al capitalismo prima di odiarlo così profondamente).
L’indebitamento spinse i consumi americani ben al di là dei limiti della produzione ignorando, grazie alla impunità del dollaro, il problema del disavanzo (in una sorta di follia collettiva, alla quale parteciparono anche molti “poveretti”, non certo capitalisti, invasati da impossibili guadagni attesi). L’indebitamento provocò la straordinaria espansione delle attività finanziarie fino al quadruplo del prodotto reale, costituendo la base del nuovo superpotere finanziario. La condizione di sostenibilità di questo colossale indebitamento era che il credito fosse continuamente rinnovato. Come l’economista Marc Bloch affermò, il capitalismo sembrava essere diventato il solo regime in cui i debiti non erano mai rimborsati. Illusione. Come le onde del mare, che si accavallano l’una sull’altra, anche le onde del debito erano destinate ad infrangersi contro la riva (con ciò determinando la fine di una grande illusione, che la sconfitta del comunismo rappresentasse ora e sempre il trionfo del capitalismo, o meglio, di tutti i sistemi a trazione capitalistica, praticamente dappertutto). Alla fine del primo decennio del secolo, la più
devastante crisi degli ultimi ottant’anni ha investito l’America propagandandosi poi nel mondo.
Questa volta, la reazione è stata fulminea. Gli Stati hanno pagato i conti della crisi. L’indebitamento si è spostato dal privato al pubblico (e non poteva essere altrimenti se i sistemi dovevano sopravvivere).
A differenza di quello privato, però, l’indebitamento pubblico viene subito a galla. E l’aspetto più grottesco è la sua denuncia da parte di coloro che ne sono stati beneficati (ma lasciamo perdere le denunce trattandosi di un cammino obbligato. Bisognerebbe, d’altra parte, far sì che gli effetti, i cosiddetti “sacrifici” ricadano su tutti, in modo concreto e visibile). In queste condizioni si pone il problema di come disciplinare la finanza senza frenare la crescita. Frenare la finanza significa ridurre i debiti, il che è terribilmente difficile sia per lo Stato che deve fronteggiare la reazione politica ai tagli della spesa pubblica, sia per le imprese, una grande parte delle quali contano sul ricorso al credito per chiudere i conti (quanta consapevolezza c’è di tutto questo nell’opinione pubblica?). Ma, soprattutto, frenare la finanza significa limitare drasticamente il potere delle banche di creare moneta (con i crediti di vario tipo), come hanno largamente fatto nelle più svariate e dissimulate forme. Finora nessuno ci ha neppure provato. E infine, se anche si riuscisse a ridurre l’indebitamento, dove trovare le risorse per finanziare gli investimenti necessari alla crescita (già, dove?). Temo che la scelta sarebbe quella tra rinunciarvi, accettando un lungo periodo di ristagno (vedi Giappone) o ricavare risorse dalla compressione dei redditi da lavoro e della spesa sociale (cosa più probabile). Non è ciò che minaccia di verificarsi in Europa ? (sì).
(A questo punto Ruffolo finisce con il richiamo ad una ahimé quanto improbabile prospettiva di mutamento globale dell’evoluzione possibile). Resta la prospettiva
più improbabile (lo riconosce): quella di riorientare l’economia verso uno sviluppo, come dice Pirani, “ragionevole e compatibile” ecologicamente e finanziariamente. Il che comporta grandi spostamenti nella distribuzione di redditi rispetto a quella attuale “paurosamente” squilibrata e nella riallocazione delle risorse, tra beni privati e beni sociali. Ma anche, e soprattutto, un riorientamento etico. Certo, è possibile. (io non credo che lo sia). Anzi, è necessario. Ma per chi ha passato tutta la vita a sostenere che questo è il vero problema, è difficile immaginare che il miracolo si compia nella parte che gli resta (la conclusione è da grande maestro, ma direi che il vero problema è di predisporre piani che si possano realizzare, con sistemi e alleanze che tengano e si mantengano e risultati fattibili. Ma anche questo impegno, pur se meno ideale di quello indicato da Ruffolo, non è neppure esso visibile all’orizzonte).
Io, per quanto mi riguarda, pur esponendo tutto il discorso di Ruffolo, assai pregevole ed onesto, ho insinuato elementi di discussione ma lascio volentieri la parola a voi amici. Ripeto, si tratta di argomenti difficili, ma chi dice che la realtà non lo sia? O vogliamo lasciare il campo solo agli specialisti? In fondo, delle decisioni e delle scelte, più o meno alternative, ne va dell’avvenire e della sopravvivenza di milioni di esseri umani.
Lorenzo.rm




Sono argomenti “difficili” come tutti noi sappiamo. Ma è con questi argomenti che dobbiamo assuefarci, per due motivi: il primo, perché sono importanti, il secondo, perché non dobbiamo lasciarli agli specialisti. Tutto si deve offrire al dialogo democratico. Sottolineo dialogo. Qui non si cerca di convincere nessuno, ma voi lo sapete perfettamente.
La crisi ha investito anche il nostro paese, per uscire da questo incubo abbiamo ridotto gli investimenti, tagliato tutti i più importanti servizi, penso che ci vogliano regole e nuovi meccanismi stabili per poter arginare questa valanga di disagi. Fino a prima della crisi il denaro correva a fiumi senza sapere quale sia stato il ritorno produttivo. Si è speso sempre più di quello che si è guadagnato incorrendo a pericolosi disastri. Noi italiani possiamo dire che abbiamo risentito meno la crisi, perché siamo stati parsimoniosi, abbiamo curato sempre il nostro orticello, il guaio è che ora bisogna limitarsi ancora di più. Quello che scrive Ruffolo sono buoni propositi condivisibili. Il debito pubblico aumenta, come fare allora a poterne venire fuori? La politica deve essere in grado di superare questi disagi, razionalizzando le spese superflue e farsi l’esame di coscienza trovando nuove soluzioni per quelle famiglie che non possono arrivare alla fine del mese. Le parole non bastano più. Certamente io non sono preposto per rimediare i mali, ma mi aspetto che qualcuno lo faccia.
Tante grazie, Angelo, per aver voluto, e saputo, fare da apripista. Condivido tutto quello che scrivi. Il fatto è che, spesso e volentieri, di fronte alla gravità dei problemi, ognuno si aspetta che non spetti a lui far parte di coloro che devono fare qualcosa. E rimanda ai comportamenti ed agli impegni che “altri” devono assumere. Questo è vero fino ad un certo punto. Si pone spesso un problema di compatibilità dei comportamenti di tutti rispetto alle esigenze comuni. E allora si viene a scoprire che manca talvolta un piano che metta con i piedi per terra gli obiettivi da raggiungere, che gli interventi, quando ci sono, sembrano essere punitivi per qualcuno e troppo favorevoli per altri, che le ricadute dei cosiddetti sacrifici sono troppo onerose su un piano territoriale o settoriale, ecc. Insomma, quando si va sul concreto e non si può più “sparare nel mucchio” le cose si complicano enormemente. Anche affrontando la crisi partita dall’America di cui scrive Ruffolo (ma tutte le crisi ormai hanno cause ed effetti mondiali) si disse che furono smaccatamente favoriti rispetto agli altri gli operatori bancari e finanziari, dimenticando i critici, peraltro, che negli attuali equilibri dei sistemi economici le banche hanno un ruolo particolarmente importante. Ma esse avevano fatto errori enormi di operatività….ecc. ecc. Anche se non bisogna dimenticare gli effetti sull’occupazione…. Insomma, sono contento che sia possibile man man accrescere la nostra dimestichezza con i problemi che abbiamo introdotto.
Sempre ottimi argomenti anche se difficili da capire come funziona tt il meccanismo del capitalismo. Lo stesso può essere definito come una organizzazione di vita sociale e sopratutto economica un’insieme di ricchezza e denaro, questo capitalismo ci ha portato una grande crisi economica di disoccupazione- con la caduta del Pil, non dimenticando però la stagnazione politica, con tutte le conseguenze della crisi capitalistica (crisi economica)con sempre meno investimenti nelle attività economica del nosto paese. Per il resto condivido pienamente quanto scritto da Lorenzo.
E CHE PURTROPPO INVECE CHE RIV0LTARCI LE MANICHE ED ASPETTARE CHE SIA LA PROVVIDENZA ‘VEDI STATO ‘OGNUNO S’IMPEGNASSE NEL SUO PICCOLO E NON FACESSE LO STRUZZ0 NASCONDENDO LA TESTA NELLA SABBIA ,CI PENSERA BENE LUI NO………….STIAMO A VEDERE………….
Grazie Nembo. Le crisi sono una caratteristica del capitalismo, tanto è vero che, fin dai primordi, c’è sempre lo Stato che interviene a limitare o espandere la domanda, a regolare le condizioni di funzionamento del mercato, a controllare le condizioni delle attività lavorative, in ciò spinto dai sindacati. Il capitalismo, è chiaro, non è un sistema uniforme e fra i vari paesi, a più alto o più basso ritmo e livello di sviluppo, ci sono vere e proprie guerre, anche se incruente per fortuna. Il modello, però, è uniforme ed è basato sull’impresa, che rappresenta il motore di tutto. Ma l’impresa che produce beni e servizi è sempre più supportata da attività finanziarie che non sempre determinano il successo delle attività. E quando le crisi non sono determinate dagli andamenti economici ma, soprattutto, da quelli finanziari, spesso speculativi, sono di difficile soluzione. Da considerare, inoltre, i tanti reticoli internazionali in cui operano i vari paesi. E’ per tutto questo che, spesso, le polemiche, i lamenti, le passioni sul piano dei semplici cittadini non trovano alcuna possibilità di seguito.
No, Sandra, la provvidenza non ci aiuta certamente e, di fronte a problemi enormi rispetto alle nostre possibilità di intervento, faremmo comunque bene a darci da fare invece che aspettare che qualcuno ci aiuti. Stasera in tv ho visto le facce dei giapponesi colpiti dal terremoto: essi sanno per esperienza diretta che dovranno fare da sé, non escludendo, è ovvio, gli aiuti internazionali.
CERTO LORENZO QUANDO LE CALAMITA’ SONO ENORMI UN AIUTO CI VUOLE,MA SE NON CI METTI DEL TUO…..ASPETTA E…SPERA DA DOVE SONO PARTITI I GRANDI CAPITALI ?
Sandra, purtroppo non solo i grandi capitali ma anche i medi e piccoli. E qui nasce un altro grande problema. Come vengono impiegati i nostri soldi dal sistema, talvolta anche con la nostra compiacenza? Non si è talvolta troppo interessati al possibile guadagno che al tipo d’impiego?
E’ questo che ci snerva lorè, noi possiamo anche darci da fare,( gli italiani sono sempre stati accorti ed oculati), ma è il sistema che è sbagliato, che usa le nostre capacità scorrettamente,per tenere in piedi un apparato politico che nn ci appartiene,non ci rappresenta.Non siamo compiacenti a questo lorenzo , e non possiamo farci niente…innutile urlare votate di qua o di là…sono tutti uguali.
Grazie, Lieve. Hai ragione, non diciamo: votate di qua o di là perché effettivamente il sistema che sottende i programmi politici è sempre quello. A questo punto bisognerebbe però essere chiari con noi stessi. Se il modello cosiddetto capitalistico non mantiene lo sviluppo, non lo allarga ai paesi più poveri, non diviene sempre più gradevole e accetto ai più, che ce ne facciamo? E tante battaglie in sua difesa non sono inutili? La domanda è doveroso porsela ma la risposta non è scontata. Perché alternative non se ne vedono all’orizzonte. Un modello ambientalista? Un modello comunista “buono”? Un modello socialista? Nessun modello? E poi come ci muoviamo nei meandri di quelli che ho definito “i reticoli” delle alleanze internazionali, politiche, economiche? Siccome, però, dobbiamo arrivare al fondo dei problemi ed occuparcene senza farci fuorviare da argomenti più futili e meno importanti, dovremmo dire che i sistemi dei paesi come il nostro sono costruiti, di fatto e di diritto, in base agli obiettivi che intendiamo raggiungere. E che i sistemi tendono in gran parte ad assicurare ai cittadini beni di tipo “privato”. Siamo sicuri che vogliamo davvero tali tipi di beni? Se sì, dobbiamo considerare anche i prezzi che dobbiamo pagare. E se no, che facciamo in alternativa? Sono domande scomode, mi rendo conto. Anche perché siamo abituati a parlare sempre d’altro.
Purtroppo in politica la parola non è mai data, è solo presa in prestito, i nostri politici parlano del futuro ma sarebbe opportuno agire ora altrimenti l’economia va sempre più nel paltano
Ops-dimenticavo a Seul nel 2010 i grandi al G-20, promettevano che avrebbero fatto monitoraggio sugli squilibri commerciali, finanziari, avrebbero dato linee guida, elaborati indicatori economici ma dove? Sole parole.
Si poteva immaginare che vivere oltre le proprie possibilità poteva portare a crisi globali. Si poteva immaginare che un capitalismo eccessivamente liberista non poteva che portare “al tutto e subito” ,allo sfrutamento indiscriminato di ogni risorsa e al perseguimento del massimo guadagno. E’ tutto giusto quello che scrive Ruffolo è anche giusto ed auspicabile uno sviluppo ” responsabile e compatibile” con un “equilibrio dei redditi” ed un chiaro “orientamento etico”. Però anche Ruffolo ha dei dubbi che questo possa avvenire “sua sponte”.
Allora!
Quando la poverà attanaglierà anche l’occidente , quando le differenze fra ceti saranno maggiori, quando pochi o addirittura pochissimi possiederanno la maggior parte delle ricchezze …allora si riempiranno le piazze ed il mio timore è che si alzeranno forche e ghigliottine , come è sempre stato.
Allora!
Allora dovremo cambiare la politica, pensare al rigore, abbandonare il consumismo estremo, l’edonismo, rinunciare, fare sacrifici, riequilibrare i redditi e pensare soprattuto al futuro della terra e delle generazioni che verranno , non credere più agli incantatori di serpenti,aprire gli occhi, non essere più succubi di chi ci promette o ci ha promesso mondi che non si potranno più realizzare.
Sì, Nembo, è impressionante toccare con mano la vacuità di tutto un mondo, in cui si frammezzano politica, economia, cultura, tecnica, ecc., che dichiara, afferma, conferma e poi….Questi osservatori sull’economia mondiale che si limitano a dare indicazioni quando occorrerebbero azioni. Ma qui subentra un tragico gioco delle responsabilità o, per meglio dire, delle irresponsabilità. Oltre quel confine non si può andare, è competenza di altri, e così si chiacchiera o si producono carte, che equivalgono a chiacchiere. E’ comunque vero che l’infatuazione capitalistica dopo il crollo del comunismo è cessata. Mi ricordo qualche anno fa il sussulto della globalizzazione, quando si ritenne (uovo di Colombo) che favorire il massiccio movimento delle persone oltre che dei prodotti e dei capitali avrebbe reso impetuoso lo sviluppo e consentito la crescita di situazioni altrimenti irrecuperabili. No, non era così. Oggi penso che concetti come nazioni, moralità, religioni, impegno sociale, libertà, solidarietà, e tutti gli altri impegni “buoni” siano destinati a prendere il posto di concetti che si davano ormai al primo posto per sempre. Le forme di governo, ad esempio, sono davvero tutte simili? E come sono diffuse nel mondo? E come possono collaborare tra loro? Per raggiungere quali risultati? Ruffolo ha ragione: occorrerebbe un grande laboratorio umanistico per fare qualcosa. Sto leggendo dei lavori politici che propongono di fare di alcuni fattori, di solito considerati economici, beni indisponibili da sottrarre al mercato e sulla cui base costruire un’altra economia, un’altra politica. Non so che cosa si potrebbe fare concretamente, in tempi brevi. Ma il mondo così come lo conosciamo ci sta “scivolando via”. E gli anni passano. E le sicurezze diminuiscono. Ed i risultati si possono raggiungere solo se si supera una “soglia” critica, al di sotto della quale possiamo solo chiacchierare. In questo quadro le furberie della politica sono ben povera cosa.
Franco, che cosa ti posso dire se non che sono completamente d’accordo con te? La tua analisi evoca scenari foschi o, al contrario, operose fucine in cui si studino e si preparino modelli alternativi rispetto a quelli che, consciamente o inconsciamente, subiamo oggi. Ma non sarà facile. Una volta ci si poteva richiamare a solidi principi, oggi non ci sono e non basta fare polemiche sull’attribuzione delle colpe. Non ci sono e basta. Se pensiamo alla recente crisi “americana”, anche i “clienti” che volevano la casa gratis approfittarono del fatto che non venivano loro richieste elementari garanzie. E le banche di tutto il mondo impinguarono il loro portafoglio con titoli che erano in realtà carta straccia. Ciò vuol dire che non ci sono segni distintivi di differenziazione concreta quanto ai comportamenti fra classi e gruppi? Sì, purtroppo, non ci sono. Rimangono certo le differenze di reddito. Ma quando vedo gli occhi di certa gente che “gratta” con passione il suo talloncino aspettandosi chissà quale vincita, quando sento un vocio alto e diffuso fra tifosi, quando, in generale, avverto l’irresponsabilità, di tanti, troppi, che chiedono, vogliono, pretendono senza averne titolo, mi si stringe il cuore. Che fare? Io penso che la prima cosa da fare è prendere coscienza. Dopo di che studiare il modo in cui ci si può rendere utili, anche sulla base delle proprie propensioni e possibilità. Dopo di che, collegarsi. E poi e poi…. Io, Franco, oggi non mi sento di dire molto di più. Stiamo toccando con mano il nulla. E’ o sarà ancora il Giappone una delle tigri asiatiche? Avrà mai ancora uno sviluppo a due cifre? Riempirà ancora il mondo dei suoi prodotti, sì copiati ma ottimi? Non lo so. Penso, come ho detto nella risposta a Nembo, che dobbiamo tutti darci una buona regolata e fare cose sensate. Ti ringrazio e ti abbraccio.
Bellissime le tue deduzioni Lorenzo ,quelli che tu dici “concetti” e che io chiamerei ideali , sono appunto il sentimento nazionale (come senso d’appartenenza ad una terra),la moralità,l’impegno sociale, la libertà, la solidarietà e non le religioni, ma una religiosità anche laica, un etica riscoperta e tutti quelli che tu chiami”impegni buoni” , devono essere uniti alla consapevolezza di TUTTI che nulla è gratuito e che è necessario rispettare ogni uomo ed ogni cosa.
Forse è un pò come credere nell’utopia e ad un mondo irrealizzabile.
Per noi vecchi e per quelli che sono immersi nei propri egoismi è certo che questo è un avvenire irraggiungibile.
Spero che parlarne,possa far comprendere ai giovani , ai giovanissimi , ancora non sporcati dalla vita ,che è invece il solo mondo possibile.
Sì, Franco, parlarne, parlarne. Perché si corre il rischio di dividersi senza parlare o, peggio, di considerare i principi come una terra di nessuno. Quando era di moda confrontarsi, e chi ha fatto sindacato lo sa, si poneva un’ipotesi e ci si perdeva il sonno ma alla fine si conveniva e si siglava un accordo. Oggi si dà per scontato che per tutta una serie di questioni non ci si confronta. E vogliamo parlare poi della fondamentale divisione, per rimanere sempre nell’ambito delle aziende, fra quelle che operano nel settore dei beni privati e quelle che devono offrire beni e servizi pubblici? Io ho vissuto l’esperienza delle imprese pubbliche in Italia, ammirate e invidiate in tutto il mondo. Ebbene, non è chiaro, non si avverte che nel campo delle imprese ci debba essere una fondamentale divisione pubblico/privato. E quanto alla politica, spesso non fa programmi ma indica linee generali che poi testa direttamente sul campo verificando in tal modo, scorrettamente, la volontà dei cittadini. Alla fine perdono tutti, se non altro per il tempo che s’è perduto e per le passioni negative che si sono suscitate. Ma questo succede in Italia e non è un esempio da seguire.
Non è sicuramente facile pensare a un sistema alternativo al capitalismo attuale – mi associo, quindi, a quanto sostengono Lorenzo e Franco – soprattutto dopo la caduta del modello sovietico di pianificazione centralizzata.
Che ne pensate di un sistema di imprese gestite dai lavoratori, il modello, o sistema, dell’autogestione, che può anche essere definito un sistema do cooperative di produzione. il quale potrebbe superare la presenza dell’imprenditore capitalista.
Il sistema suddetto, mi sembra, affondi le sue radici sia nella cultura liberale che in quella socialista, ma anche e soprattutto nel solidarismo e nel personalismo cristiano.
Mi piacerebbe conoscere le vostre idee in proposito.
A ME SEMBRA UNA IDEA MOLTO UTOPISTICA ,COME DARE LOSTESSO CAPITALE DA GESTIRE APIU’ GRUPPI N.ALLA RESA DEI CONTI CHI LHA PIU’ CHE RADDOPPIATO E CHI HA MANDATO TUTTO IN FUMO…
Giovanna, il capitalismo è stato, di seguito, ferocemente avversato, in vario modo blandito, e addirittura ritenuto l’unico sistema auspicabile, da liberare da lacci e lacciuoli per consentirgli di raggiungere le sue enormi possibilità. Noi però pensiamo al capitalismo, e all’impresa che ne rappresenta la sua più tipica manifestazione in una società, come ad un’organizzazione di tipo piramidale, con un padrone a capo (il proprietario), i suoi principali collaboratori (i dirigenti) e gli esecutori (i dipendenti). Non è più così, se mai lo è stato. Oggi ci sono tali e tante funzioni che gravitano o sono portate da un’azienda che in realtà non si può agevolmente dire dove comincia e dove finisce la parte privata o pubblica dell’azienda. E dove comanda o finisce di comandare l’imprenditore proprietario (se c’è). Dobbiamo parlare più correttamente dei fini di un’impresa, se pubblici o privati, se intesi al guadagno o senza scopi di lucro. E lo Stato interviene, o dovrebbe, per assicurare all’impresa le giuste condizioni di operatività. Ricordo che un esempio esaltante dei limiti posti agli “spiriti animali” dell’impresa di tipo capitalistico fu la socialdemocrazia nordeuropea: il concetto fu quello di far crescere l’impresa secondo le sue possibilià di mercato e di “tosare” il reddito ottenuto redistribuendolo ai lavoratori, in un patto implicito od esplicito di collaborazione. Quanto alla cooperativa, ha avuto il suo periodo eroico anche in Italia. Ma man mano perdette i suoi caratteri distintivi assomigliando gradualmente sempre più all’impresa privata. Si ritorna perciò ai fini, se privati o pubblici, di un’organizzazione economica. Il fatto è che i fini pubblici postulano l’immissione di risorse da parte dello Stato in senso lato. Mezzi di cui lo Stato sembra assai carente oggi. Anche nei paesi più ricchi. E siamo nella curiosa condizione in cui i paesi ricchi non si sviluppano essi stessi e non irradiano lo sviluppo nei paesi più poveri. Ed i paesi poveri si annullano privandosi di tutta la popolazione attiva e valida attraverso l’emigrazione..
Sì, Sandra, l’idea della cooperativa in senso stretto per l’organizzazione di un’impresa non sembra oggi molto attuale, anche se personalmente aiuterei con tutti i mezzi qualsiasi barlume di organizzazione cooperativa si manifestasse. Ma la cooperazione, intesa come fine tra i fini essenziali di una società, mi sembra molto attuale. Non devono essere solo le prospettive di guadagno ma anche quelle del reciproco aiuto, dell’esportazione dello sviluppo, del raggiungimento di fini sociali, gli obiettivi essenziali di uomini (e donne) e stati nel mondo.
Il capitalismo inteso come somma del meglio abbiamo visto cosa provoca a quelli che con il loro sudore mantengono tutti.L’estremo opposto,il cosidetto paradiso di quelli del sudore,abbiamo visto cosa era. Qualunque sistema senza un elevato livello di istruzione e di onestà morale e civile,abbiamo sotto gli occhi i risultati.Che abbia ragione quel filosofo,greco mi pare,che diceva”La democrazia é il potere di una maggioranza di deboli e di innetti su una minoranza di forti e saggi”? questo in sintesi ciò che rimane nel vaglio,depurato da tutti i begli discorsi,di gente che vive sulle spalle di quelli del sudore.Questo è il pensiero che mi viene,lo lascio.Salve.
Sai, Nico, che mi hai confermato una mia impressione di sempre? Anzi, due impressioni. La prima. Che la democrazia è il sistema meno peggiore che c’è, e prende il possibile da tutti i sistemi, cambiando secondo le necessità e secondo le scelte mutevoli di una maggioranza, che a sua volta cambia. La seconda. Che la qualità della politica, in un sistema democratico a regole consolidate, la dà proprio la minoranza, che lavora controllando tutto quello che si fa e si avvia ad essere maggioranza alla prossime elezioni chiedendo il consenso dei cittadini votanti. Tutto questo, naturalmente, in una democrazia consolidata. In Italia siamo sempre in campagna elettorale e con i casini quotidiani non si va da nessuna parte. Grazie, Nico.
Grazie Lorenzo,ti chiami come un mio zio,vedo che ti sei accorto che quello che manca è il comune buon senso e la dirittura morale.Emergeranno da queste sabbie mobili? O sono € mobili?
Sono euromobili, Nico. Ma vedrai che cresceremo anche noi, in Italia. Ci vorrà tempo e anche qualche tranvata che prenderemo in fronte. Così impareremo.
Caro Lorenzo,speriamo,mio zio la pensava come noi,ma ne hà passato di tutti i colori,ahhh Italia Italia….. ciao