La Domenica del Bosco
Scritto da Giuseppe il 8 Settembre 2012 | 23 commenti- commenta anche tu!
Era una cupa mattina di novembre e correva l’anno 1869 in quel del Veneto quando nacque Adriano in una operosa famiglia di solerti lavoratori che, grazie alla loro produttività, potevano definirsi medio borghese o, perlomeno, di agiate condizioni economico sociali. Erano trascorsi otto anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia, ovvero tre anni dall’annessione del Veneto al nuovo Regno d’Italia. Erano anni di grandi cambiamenti organizzativi, amministrativi, militari e sociali in questa nuova Italia ma gli assestamenti definitivi sarebbero avvenuti nel progredire dei tempi senza sconvolgimenti immediati. Per l’umile gente la vita procedeva con il solito problema, quello di doversi procurare il pane quotidiano con affanni e fatica. Qualche anno dopo Adriano nacque anche il fratello che venne chiamato Umberto e la famiglia, fervente cattolica, nel cercare di programmare il futuro dei figli pensava di avviare Adriano agli studi ecclesiastici mentre Umberto era destinato a studi di natura finanziaria.
Adriano si ribellò e rifiutò categoricamente di intraprendere gli studi per fare il prete e, in contrasto con il volere familiare, andò a frequentare una scuola tecnico-industriale che lo avrebbe portato a fare il tecnico specializzato nella nascente industria dell’epoca. Al termine degli studi, infatti, fu assunto da una fiorente ditta che produceva, tra le altre cose, anche apparecchiature per la produzione del ghiaccio. Lastroni di ghiaccio di 12 o 24 chili che venivano usati per la refrigerazione di alimenti e bevande (la nascita dei frigoriferi industriali e domestici erano ancora di là da venire ma esistevano le cosiddette ‘ghiacciaie’(1), in uso soprattutto nei bar ma anche in qualche casa di benestanti. Detti macchinari venivano poi venduti in tutto il nuovo Regno ed erano gli stessi tecnici della Ditta che andavano ad effettuarne l’istallazione ed eseguire il collaudo. Adriano per le sue provate capacità godeva della piena fiducia della Ditta ed aveva già effettuato parecchie installazioni in diverse località della penisola. Ogni volta andava secondo gli ordini del Paròn, effettuava il montaggio, consegnava le apparecchiature collaudate e rientrava in sede per proseguire il suo lavoro.
All’inizio del nuovo secolo, anno 1901, fu inviato a Cagliari per il montaggio della prima “fabbrica del ghiaccio” in Sardegna. Il viaggio non fu molto piacevole, l’attraversamento del Tirreno da Civitavecchia a Terranova (la Olbia di oggi), sulle navi dell’epoca non era stata proprio una crociera e Adriano, poco avvezzo a viaggiare su mezzi marittimi, soffrì pure il mal di mare. Il proseguimento del viaggio da Olbia a Cagliari completò l’esperienza negativa della trasferta. I macchinari erano già arrivati a Cagliari con altri mezzi di trasporto via mare e Adriano si mise all’opera per l’installazione e mentre lavorava pensava, tra sé, che non sarebbe mai più tornato in Sardegna. Completata l’opera e verificato che tutto funzionasse bene e che quindi era avviata la produzione dei lastroni di ghiaccio, Adriano andò dai padroni capitalisti che avevano investito e avviato la nuova attività, per le formalità di rito della consegna degli impianti funzionanti e per il saluto alfine di poter rientrare nella sua amata Venezia. Gli imprenditori erano consapevoli che in Sardegna non poteva esserci personale specializzato nel settore e che, in caso di guasto alle nuove apparecchiature avrebbero dovuto attendere l’arrivo del tecnico dal continente con conseguenti lunghi tempi di fermo che non potevano permettersi. Nella loro lungimiranza pensarono bene di proporre ad Adriano di restare in Sardegna, lo avrebbero assunto loro con una buona paga superiore a quella finora percepita nella Ditta veneta. Adriano ringraziò per l’offerta ma rifiutò dicendo che di là aveva la sua famiglia. Vada e porti qui anche sua moglie, gli dissero aumentando l’offerta.
Adriano disse ancora no, dicendo che non aveva la moglie ma la fidanzata e che non avrebbe potuta portarla con sé se non sposandola. Vada si sposi e torni risposero i proponenti. Al che Adriano disse “Non è così semplice, ci vogliono gli sghei (la moneta, i soldi). Ma i furbi imprenditori riuscirono a convincere Adriano dandogli allora, ricordiamo che siamo nel 1901, ben 300 lire perché tornasse a casa, si sposasse per tornare da loro a lavorare nella Ditta Bachisio Marullo & company. Adriano allora rincarò la dose e riuscì a strappare anche la promessa che gli avrebbero assicurato pure un alloggio per la nuova famiglia. E così fu che nel giro di un mese il bravo tecnico si era trasferito a Cagliari con la sua mogliettina Maria, una florida ragazzina di poco più di 15 anni mentre lui era sulla soglia dei 33. È stata una coppia molto unita e felice ed ebbero cinque figli: tre maschi e due femmine nati nel periodo dal 1905 al 1920, a cavallo della Prima Guerra Mondiale. Nel corso degli anni il salario percepito da Adriano si dimostrò che non era poi tanto favorevole e sufficiente per sopperire alle esigenze di una famiglia che cresceva velocemente, ma la giovane Maria, di estrazione della campagna veneta, malgrado le difficoltà di integrarsi con la gente di Sardegna per effetto delle enormi differenze linguistico/dialettali, mise in piedi un allevamento di galline ovaiole, altro pollame e conigli che gli permise di contribuire in modo proficuo alla economia familiare. Anche allora i periodi di crisi si susseguivano ad altri di scarso benessere ma si riusciva a vivere. Le 300 lire che furono anticipate ad Adriano per poter effettuare il matrimonio gli furono recuperate un po’ per volta dal salario mensile. Infine il villino che gli era stato assegnato come alloggio, negli anni successivi gli fu tolto perché serviva ad una figlia dei ‘padroni’ che si sposava e Adriano dovette trasferirsi in casa d’affitto. Comunque nella loro casa non sono mai venute meno le tradizioni venete, si mangiava costantemente la polenta con tutte le varianti dei loro menù regionali.
Il fratello Umberto completò i suoi studi di economia in modo veramente brillante, si sposò anch’egli e proprio per le sue capacità professionali fu chiamato a Roma e andò a prestare la sua opera come funzionario amministrativo proprio al Ministero delle Finanze della Nuova Italia con Roma capitale. Adriano non si spostò più dalla Sardegna fece solo un altro viaggio via mare da Cagliari a Civitavecchia per recarsi a Roma in occasione del decesso del fratello Umberto. Maria sentiva in cuor suo la nostalgia della sua terra e della sua gente ma non lo dava a vedere: la sua famiglia era qui ed era felice col suo amato Adriano. Donna molto pratica e concreta, si dedicava al disbrigo delle faccende domestiche ma trovava anche il tempo di dedicarsi alla lettura del giornale quotidiano e dei due settimanali che andavano allora per la maggiore: “La Domenica del Corriere” e “La Tribuna Illustrata” che nella sua casa non mancavano mai. Più tardi, con l’avvento della radio, aggiunse nel suo relax l’ascolto di musiche e commedie, senza trascurare la Santa Messa. Adriano, da par suo, si dedicava completamente alla famiglia. Si alzava tutti i giorni feriali alle cinque del mattino e si recava in Ditta per il turno di lavoro dalle 6 alle 14. Nei mesi invernali utilizzava il tram ma quando il tempo era buono preferiva utilizzare la bicicletta che era attrezzata per trasportare una mezza lastra di ghiaccio e la spesa della quale si approvvigionava nel Civico Mercato adiacente alla fabbrica del ghiaccio dove egli prestava la sua opera. Proprio per le sue molteplici capacità professionali, la Ditta ebbe modo di utilizzarlo anche per il montaggio di altri macchinari negli stabilimenti messi in piedi dalla stessa Società: la “Birreria Ichnusa” e la “Cantina Vinalcool” sempre nell’area di Cagliari. La sera Adriano si dedicava ad altri lavori giusto per arrotondare l’insufficiente salario. Nel periodo dell’avvento della illuminazione elettrica e quindi del passaggio dalla illuminazione a lumi ad olio, petrolio, carburo o steariche a quello delle lampadine, conoscendo le sue capacità, era usuale che Adriano venisse chiamato per l’installazione degli impianti nelle abitazioni private e la predisposizione dell’allaccio che avrebbe poi effettuato la Società Elettrica con l’installazione del ‘contatore’.
Il pagamento per tali lavori non sempre era in vil moneta ma spesso si compensava con qualche sacchetto di legumi, un po’ di uova o una gallina da brodo. Molte famiglie non potevano permettersi neppure questo e il bravo Adriano dal cuore nobile si inteneriva e lasciava perdere: “Me lo pagherai quando puoi” diceva e tornava a cassa a mani vuote. La Maria, in questi casi si insospettiva e non mancava il rimprovero e la scenata di sottile gelosia. Adriano era un uomo vigoroso e piacente, cioè quello che poteva definirsi un bell’uomo e Maria pensava che qualche gentile signora potesse ricompensarlo in altro modo. Oggi non so, ma in tempi andati poteva succedere anche questo e quindi nell’animo di Maria, innamorata di suo marito, potevano nascere sospetti e gelosie anche se non giustificati. Non si è mai avuta conferma che il buon Adriano si prestasse a simili baratti, anche lui era innamorato della sua bella mogliettina e gli è rimasto sempre fedele.
La Sardegna è stata sempre una terra di emigranti: molti sardi hanno lasciato la loro regione e sono andati in giro per il mondo in cerca di un lavoro per guadagnarsi da vivere, subendo molto spesso, come succede in questi casi, sacrifici e umiliazioni. La vicenda di Adriano era stato un caso di emigrazione al contrario, dal suo lavoro aveva ricevuto delle belle soddisfazioni ma non erano mancati anche per lui tanti bocconi amari. La sua tempra forte gli permise di superare momenti molto difficili. Continuò a lavorare sempre a Cagliari anche sotto le bombe nel periodo della Seconda Guerra Mondiale e lo tennero in Ditta fino al compimento degli 80 anni, cioè fino a quando maturò finalmente il diritto alla pensione in relazione al periodo di contributi assicurativi che venne coperto solo ad iniziare dagli anni ’30.
Ci sarebbe ancora tanto da dire ma mi fermo qui e chiedo venia agli amici/amiche di Eldy per aver voluto raccontare questa storia che ho avuto modo di conoscere molto da vicino e può considerarsi uno spaccato di vita del 20° secolo.
Grazie per la vostra pazienza ed attenzione.
Giuseppe Cagliari
(1) - una sorta di cassettone di legno con coperchio, completamente rivestito all’interno di lamiera zingata e stagnata, dentro il quale si mettevano insieme gli alimenti e le bevande da refrigerare con il ghiaccio che veniva tagliato in tanti pezzetti con un apposito martello spaccaghiaccio. Nelle case che non disponevano della ghiacciaia si usava un capiente secchio che poteva assolvere le stesse funzioni.




Davvero bella questa tua storia, Giuseppe. Ma soprattutto vera. Penso che tutti gli emigrati, anche da una regione all’altra d’Italia, si possano riconoscere nei problemi, e anche nell’orgoglio di aver fatto o di fare le cose giuste, quelle che contano nella vita: in particolare, di trovare delle soluzioni ai fondamentali della vita: la famiglia, i figli, la casa, gli studi, ecc. In sintesi, un altro pezzo di bravura, Giuseppe.
Si Lorenzo, è proprio una storia vera. Sento di doverti ringraziare per la tua analisi di lode perché so che scaturisce dalla tua capacità di esprimere sempre un giudizio concreto e sincero. Comunque, anche in questa occasione hai dimostrato di essere un vero grande amico, grazie.
Molto avvincente questa storia, Giuseppe e scritta proprio col cuore. Ne conosciamo tante, molto simili, ma questa vicenda ha la capacità di esprimere, con grande fierezza, gli obiettivi che l’emigrante vuole raggiungere per sé e per la famiglia, non dimenticando la sua terra d’origine.
Grazie, ancora una volta, Giuseppe.
Sei sempre dolcissima Giovanna e ti ringrazio. Le storie scritte col cuore e sotto la spinta ispiratrice della sincerità riescono sempre a coinvolgere l’animo di chi legge e questa è già una bella ricompensa.
Veramente bella questa storia che l’amico GiuseppeCA ci ha proposto, diciamo anche commovente, testimonianza di un racconto con vicende veritiere di gente immigrata non solo all’estero ma anche nella stessa Italia, racconti di vita che anche oggi affiorano sempre meno per mancanza di lavoro ma con gli stessi ideali per chi cerca di migliorare la propria posizione coinvolgendo la famiglia stessa. Buona domenica a tutti.
Verissimo Nembo, le storie si ripetono: ancora oggi con l’alternarsi dei vari periodi di crisi e la conseguente perdita del lavoro nella propria sede, ci si vede costretti a tentare l’avventura dell’emigrazione nella speranza di trovare una qualsiasi occupazione che possa dare la possibilità di sostentare la propria famiglia.
Oggi assistiamo al fenomeno degli extracomunitari che, in preda alla disperazione, tentano il tutto per tutto per riuscire ad entrare in Europa in cerca della soluzione del problema vita. Sono fenomeni che noi abbiamo ampiamente vissuto in passato ma che ancora resta una delle opportunità che non può essere trascurata, specialmente per i giovani, nel tentativo di arrivare alla soluzione. Speriamo bene.
ciao a tutti gli amici del bosco. Attuale la storia di Adriano perchè ancora oggi i ns. giovani se vogliono formarsi una famiglia e vivere decorosamente, devono lasciare le loro case e i loro affetti e andare dove il lavoro ha una dignità e viene ricompensato adeguatamente.
Wanda grazie per il saluto e per il tuo preciso intervento. La storia di Adriano e datata di 100 anni ma, come dici tu, è ancora attuale, infatti moltissimi nostri giovani sono costretti a trasferirsi lontano dai propri affetti e dal proprio status residenziale per cercare di guadagnarsi da vivere. Non sono d’accordo quando dici “andare dove il lavoro ha una dignità e viene ricompensato adeguatamente” in quanto questa è una pura idealizzazione perché da sempre il lavoratore immigrato subisce ancora tante umiliazioni e deve sopportare enormi sacrifici. La vita è una ruota che gira e così va il mondo.
Sembra una storia antica , ma non lo è …di B.M & company ne incontriamo tutti i giorni …cambiano gli emigrati…cambiano i valori delle cose….ma ho il timore che i “padroni” siano sempre gli stessi.
Confermo Franco, è una storia antica e moderna allo stesso tempo perché ancora attuale: i tempi non sono cambiati. Tremila anni di storia non hanno cambiato il mondo…. una volta li chiamavano schiavi, oggi li chiamano lavoratori ma nel lavoro se manca la sicurezza manca anche la dignità e senza la dignità si ritorna a sentirsi nuovamente schiavi. Cosa è cambiato? Forse solo il nome. Il messaggio è stato recepito, ti ringrazio Franco, sempre puntuale e preciso.
Sempre bella la tua storia giuseppe e sopratutto vera,con un contenuta di tanta umanita’.A mia volta i posso raccontare quello he ci diceva mio suocero “quando per guadagnare 5 lire in piu lasciava la giovane moglie e una bimba di pochi mesi e si tasferiva da Desio (Milano) a Prato in Toscana ai suoi tempi una vera avventura .Ma grande era il desiderio di migliorare ,di offrire ai suoi cari una vita migliore nessun sacrificio pesava”E la sua fatica fu premiata con un ottima riuscita.
Caro Giuseppe 3a, insisto per il lavoro dignitoso e pagato adeguatamente, perchè so di tanti casi che verrebbe proprio la voglia di mandare al diavolo tutti: che ne dite di un primo impiego pagato sugli 800 euro ad un laureato con 110 e lode e segnalato per il programma di ricerca “Archimede”? progetto rifiutato per l”alto costo di partecipazione. E che ne dite di un primo impiego in un Casinò all”estero (perchè qui in Italia bisogna conoscere l”amico giusto per accedervi)pagato sui 1400 € e senza bisogno di laurea? E^ vergognoso che i ns. lavoratori debbano protestare per ottenere lavoro ad una misera paga o debbano lottare con le unghie e con i denti per conservare quel poco che almeno consente di campare. Oramai abbiamo capito che la vita è lotta senza quartiere almeno fino a che nn si decide di intervenire più drasticamente, e allora come finirà?
Carissima Wanda concordo anch’io per il lavoro dignitoso e pagato adeguatamente ma spesso resta solo un pio desiderio perché non sempre si riesce a trovarlo e nella maggior parte dei casi è vero il contrario. Questo non cambia sia in Italia che all’estero, sia per i residenti e ancor di più per gli immigrati.
Gli esempi da te citati li sto vivendo molto da vicino con i miei figli e ne conosco bene tutti i risvolti negativi. Grazie ancora per le tue precisazioni.
Vero Sandra, quanto ci hai appena detto corrisponde ad una realtà vissuta molto spesso da tantissimi lavoratori ancora oggi con temporanei distacchi dagli affetti più cari per andare a trovare un lavoro che non hai o per avere un lavoro più dignitoso che consenta di guadagnare qualche €uro in più a beneficio della propria famiglia. Grazie Sandra, sempre puntuale e precisa.
Bentornata Sabrina, perfetta la grafica e un mio personale grazie per il video con la canzone appropriata all’argomento trattato.
Il tema della migrazione ci prende emotivamente perchè evoca vissuti familiari, racconti antichi ma sempre attuali. L’essere umano da sempre parte per sopravvivere, per migliorare, per evolvere, portandosi dietro le sue radici, caricandosi l’animo di tanta amarezza e malinconia. In fondo, come è stato già sottolineato, nulla è cambiato rispetto alla bella storia che hai raccontato, Giuseppe. Anche oggi le motivazioni sono le stesse, ma forse c’è più rabbia, soprattutto nei giovani che studiano, si preparano e poi non hanno modo di mettersi alla prova nella società in cui sono cresciuti. E’ amaro pensare che l’evoluzione dei tempi, che sembrava promettere benessere e lavoro per tutti, sia stata solo utopia, un progetto non realizzato il cui fallimento però incide pesantemente nella vita individuale e collettiva. Anche su mia figlia appena laureata gravano ombre ed incognite, e si ha la sensazione che i sacrifici affrontati da tutti noi possano essere vanificati da troppe variabili che incombono, e ci si sente impotenti…
Grazie comunque per la bellissima storia che coinvolge e commuove.Ciao!
Grazie a te Silvana per i tuoi benevoli apprezzamenti nei mie confronti che confermano la tua infinita gentilezza.
Il problema delle emigrazioni/immigrazioni ed anche della mobilità tra le varie nostre regioni è un fenomeno veramente attuale, a volte per necessità al fine di trovare un lavoro ma spesso anche obbligato per mantenere un lavoro che già si ha ma che i grandi Gruppi Industriali decidono di spostare da una regione ad un’altra.
Triste per i laureati che alla fine di un ciclo di studi e preparazione non trovano lavoro e sono costretti magari ad emigrare per trovare una occupazione spesso anche umile e sottopagata.
La Sardegna per effetto della sua insularità risente in modo particolare di tale situazione. Ne ho dei validi esempi in casa e conosco bene il problema. Ancora grazie…. ciao.
Giuseppe, i problemi della Sardegna che abbiamo tutti i giorni sotto i nostri occhi, sono l’emblema di una crisi lunghissima che manda a casa i lavoratori senza prospettive. E’ semplicemente terribile vedere dipinta la disperazione in quei volti stanchi. Vi siamo vicini, semplicemente.
Ti ringrazio ancora Silvana unitamente a tutta la Sardegna: non dubitavo della tua comprensione così come quella di tanti altri che seguono la vicenda. Il lavoro va difeso come lo stanno difendendo questi lavoratori ai quali è doveroso comunicare tutto il nostro sostegno.
e che se ne fanno del ns. sostegno se nn si risolvono i problemi e si decide che il lavoro è un DIRITTO che nn può essere alienato per il ghiribizzo di qualcuno che nn si sporca le mani e che pensa solo ad aumentare le proprie entrate. Nn sarebbe possibile al lavoratori, rilevare la ditta in cui lavorano econtinuare a lavorare in proprio? So che la cosa è alquanto utopistica, ma nn ci si può pensare?…
Concordiamo tutti che il lavoro è un DIRITTO e sono giustificate le lotte per difendere il LAVORO. Quando una categoria di lavoratori inizia una battaglia per difendere un diritto sacrosanto e soprattutto il futuro della propria famiglia…. che fai? Gli togli anche il sostegno?
Aggiungo, cara Wanda, che in molti casi, per chi ci sta vicino, offriamo volentieri la nostra solidarietà non solo morale. Per la tua proposta hai già detto che è utopistica e, come tutti sappiamo, le UTOPIE, rarissimamente si riesce a realizzarle. In altri casi è stata tentata la strada dell’autogestione ma è arrivata sempre al fallimento proprio perché non ha trovato il sostegno di chi avrebbe dovuto. Grazie ancora.
Cari amici del bosco, e caro Giuseppe 3a che sei in accordo/disaccordo con me, dico che assolutamente…offro il mio sostegno morale a tutti coloro che combattono dignitosamente per la possibilità di portare qualcosa a casa (e già mi sembra offensivo pensare che si deve lottare per avere i propri diritti) ma siamo pratici, mi sembra che non ci sia proprio la volontà o la capacità di risolvere i problemi di chi lavora col sudore della fronte in vantaggio di chi invece dirige e non si sporca le mani. Ci deve essere chi dirige e guida, e deve essere ricompensato, ma non a scapito di chi fatica manualmente. Non so se mi sono espressa chiaramente, vorrei che ognuno avesse la giusta mercede per il lavoro che offre, mi pare offensivo che un dirigente sia pagato 400 mila euro all^anno e un operaio non arriva a 30 mila euro annui, qual^è il rapporto?
Si Wanda, tra noi è nata una bella dialettica ed è ovvio che possiamo trovarci in accordo su alcune cose e in disaccordo su altre ma questa è la dialettica. Alla fine però arriviamo entrambi allo stesso risultato perché concordo anch’io sull’ultima parte del tuo commento: su questo non ci piove. Il mio punto di vista è che il problema esiste da millenni e non si è mai risolto: ecco perché in molti casi rimango scoraggiato ma non mi fermo e non mi tiro indietro, continuo a lottare e a sostenere chi lotta. Forse stavolta ci siamo capiti, grazie, ciao.