LA DOMENICA DEL BOSCO
Scritto da Giuseppe il 29 Dicembre 2013 | 22 commenti- commenta anche tu!
Le cronache giornalistiche e televisive di oggi ci sommergono con le drammatiche notizie della immigrazione clandestina dei popoli extracomunitari verso i paesi occidentali, Italia in primis come porta per l’ingresso in Europa. Gente disperata che scappa dal proprio paese per salvarsi dalle persecuzioni razziali e politiche ma soprattutto per sfuggire alla morsa della miseria e da un futuro senza prospettive, ma spesso anche per salvare la propria vita.
Ma come eravamo noi, non tanto tempo fa? Torniamo indietro solo di qualche decennio e la situazione non era tanto diversa. Ce ne dà un tipico esempio l’amico Vanny con il racconto della sua storia.
Leggiamola insieme per trarre le debite conclusioni e considerazioni da buoni amici. Grazie.
Correva l'anno 1951, ero bambino, quando a Narbolia, mio paese di nascita, si è abbattuto un disastroso diluvio che ha fatto crollare la misera casa di mattoni crudi dove abitavo. Era rimasta miracolosamente in piedi solo la stanza dove c'era la mia mamma che già doveva stare su una sedia a rotelle.
L’economia familiare si reggeva con i lavori occasionali di mio padre, tutto ciò che capitava per poter racimolare qualche risorsa per alimentare la famiglia ma dopo questa botta aveva perso ogni entusiasmo e si era piano, piano lasciato andare cadendo nella trappola dell’alcol all’osteria con gli amici.
Quando ero in età scolastica riuscii a malapena a frequentare fino alla terza classe elementare ma eravamo in uno stato di estrema miseria e, già da ragazzino, dovetti presto adattarmi a trovare qualche lavoro per aiutare l’economia familiare in estrema povertà, si doveva pur vivere.
All’età di 14 anni ho iniziato a lavorare nell’officina di un fabbro, come apprendista per imparare un mestiere. Si lavorava tutta la settimana e anche la domenica mattina per ferrare bovini e cavalli.
Per quattro anni mi sono dato da fare per imparare il mestiere di fabbro, arte nobile ma lavoro faticoso. Mi ero fatto i muscoli, sapevo saldare e lavorare il ferro anche se non ero un maestro ma mi resi conto, molto presto, che questo non sarebbe stato sufficiente a risolvere il problema dell'esistenza in un paese di poco più di mille abitanti e dall’economia povera basata prevalentemente sull’agricoltura e l’allevamento di bestiame.
A casa non avevo un letto, dormivo su una stuoia di paglia stesa per terra e per coprirmi non avevo coperte ma usavo un vecchio cappotto ormai dismesso. Anche gli indumenti che usavo per vestirmi erano capi di vestiario usati, donati dalle persone benestanti a noi, appartenenti alla misera plebe. Nella mia casa non esisteva un tavolo per riunirci a mangiare, si mangiava con due sedie, una di fronte all’altra: una per appoggiare il piatto e l’altra per sedersi. Storia molto triste la mia.
Non avevo ancora compiuto 19 anni quando decisi di lasciare la Sardegna, abbandonando, con grande dolore, mia madre sulla sedia a rotelle e mio padre ormai annebbiato dai fumi del vino. Tentavo l’avventura dell’emigrazione nella speranza di migliorare la mia esistenza e di poter aiutare in qualche modo la famiglia.
Furono anni rocamboleschi che cercherò di raccontarvi in breve. Arrivai a Bergamo e trovai un lavoro in fabbrica. Vi rimasi fino a che mi chiamarono per assolvere l’obbligo del servizio militare. Sotto le armi conseguii la patente per la guida dei camion per cui, una volta congedato tornai in Sardegna nella speranza di trovare un lavoro come camionista.
Stessa storia, niente lavoro e decisi ancora di partire, stavolta per la Germania ma anche qui il lavoro non era soddisfacente, ci rimasi un anno e ritornai a Bergamo.
Qui incontrai una ragazza che mi propose di andare a lavorare come camionista con suo padre, accettai ma non potevo rimanere con lui, precario e senza assicurazione. Con questa ragazzina era scoppiato l’amore. Con grandi sacrifici ci sposammo e in soli quattro anni mi diede tre figli meravigliosi. Trovai un altro lavoro da camionista e iniziai a stare meglio per cui tentai l’avventura di comprarmi un camion in proprio per rendermi autonomo…. ma le cose non andarano molto bene, le banche, con gli interessi sul prestito, si portavano via ciò che doveva essere il mio guadagno. In un modo o nell’altro siamo comunque sopravvissuti e sono riuscito a sistemare le cose alla meglio.
Il richiamo della terra natia era fortissimo e nel 1977 decido il rientro in Sardegna con tutta la famiglia, confidando nel mio lavoro di esperto camionista avendo conseguito anche la patente E, la “patente grande”, valida per i camion di ogni genere e gli autoarticolati, ormai ero un esperto camionista che conosceva bene il suo lavoro.
Per mesi ho girato la Sardegna in lungo in largo ma nessuno mi dava lavoro. Soldi non ce n’erano più, casa in affitto, figli piccoli, il primo frequentava la terza classe delle scuole elementari. Li vedevo giocare nella polvere e mi chiedevo ma che cosa hanno fatto di male loro? Il lavoro lo trovai finalmente a Nuoro come autista ma lontano da casa. Per tutta la settimana dormivo e mangiavo sul camion, senza lavarmi, ero diventato un barbone. Rimasi lì tre mesi poi trovai lavoro a Oristano, alla Tirso trasporti, i soldi erano pochi ma non avevo altro e dovevo resistere.
Passa un po’ di tempo e un giorno ricevo una telefonata da mia sorella anch’essa emigrata in Lombardia. Mi dice chiama il tuo ex datore di lavoro, ha bisogno di te. Lo chiamai e mi disse torna da noi: è morto un tuo collega di lavoro, gradirei che tornassi tu che conosci il lavoro e i clienti. Tornai a Bergamo da solo, ripresi il lavoro ma lasciai la famiglia in Sardegna perché i ragazzi dovevano completare l’anno scolastico in corso. Tornai a prenderli e ci trasferimmo tutti di nuovo a Bergamo. Il lavoro era soddisfacente e per me era cominciata la strada in discesa: tutto andava bene e sono riuscito a comprare casa con un mutuo, con tanta fatica, con l’aiuto dei figli e con il sostegno di Susy, mia moglie, che ancora oggi, pur essendo immobilizzato in una sedia a rotelle, mi ama come il nostro primo giorno d’amore.



