Scritto da giovanna3rm il 17 Settembre 2014 |
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Ho letto questo articolo di Andrea Saba, già Professore di Economia all’Università La Sapienza di Roma, nel Corriere della Sera – Sette n. 33 del 15 agosto 2014, a pag. 122.
Nei confronti del Prof. Saba ho un debito profondo di riconoscenza: allievo di Paolo Sylos Labini, ci insegnò lui, a me e altri ragazzi dell’Università di Catania dei corsi di studi in Economia e Scienze Politiche, i primi, essenziali rudimenti dell’economia e della politica economica. Ci diresse come ricercatori nella fondamentale, per noi, ricerca sui Problemi dell’economia siciliana promossa da Feltrinelli negli anni Sessanta. E’ una persona di cui mi fido. Molto. Non è un chiacchierone e va al fondo dei problemi. Leggendo l’articolo, ho ritenuto che “non ne potesse più di tante chiacchiere e fosse sbottato finalmente in un grido liberatorio”. Ve lo sottopongo, perciò, questo articolo che tanto mi ha impressionato, sperando che possa essere utile nei nostri dialoghi.
Il titolo completo dell’articolo è “La prima delle riforme? Rottamare il PIL. L’indicatore “principe” ci porta sulla strada sbagliata”.
“Nel 2007, all’inizio della crisi, il maggior economista vivente, Paul Samuelson, , premio Nobel, scrisse che la natura della crisi era così complessa nella sua globalità e nella natura sconosciuta di molte variabili determinanti, che gli economisti erano del tutto impotenti ad individuare una terapia. Aveva ragione.

Oggi è patetico vedere economisti, politici e giornalisti affannarsi a individuare politiche che, dopo qualche tempo, si rivelano prive di senso. Tutti aspettano la ripresa e spiano il PIL e le sue variazioni millimetriche come foriere di fondamentali significati. Il PIL - Prodotto Interno Lordo - è un indicatore rozzo della evoluzione della produzione nazionale di reddito che, specie durante una crisi complessa, può variare in alto e in basso di variazioni minime che son frutto della malattia in atto (come se a un paziente gli salisse o scendesse la febbre di due o tre gradi).

Non a caso un noto economista scozzese dichiarava che se uno sposa la propria domestica il PIL diminuisce. Ed aveva ragione: la domestica divenuta moglie non ha più un salario e quindi vi è un reddito in meno nel calcolo del PIL. Figuriamoci in Italia dove sembra che trenta mila anziani abbiano sposato la propria badante: che disastro per il povero PIL.
Se la ripresa arrivasse ed il PIL crescesse del 2% la disoccupazione al massimo si ridurrebbe di un centinaio di migliaia e ci rimarrebbero sempre almeno tre milioni di disoccupati.

Il PIL viene stimato ogni tre mesi da Ministero del Tesoro, ISTAT, Banca d’Italia, Confindustria, Unione Europea, Fondo Monetario Internazionale. Non ci azzecca nessuno. O meglio: ognuno dice quello che gli pare, poi si incontrano tutti in un elegante caffè vicino a Via Nazionale fra il Tesoro, la Banca d’Italia e l’ISTAT e parlano per ore del PIL, e il caffè si trasforma in un pollaio.

Propongo che anche il PIL venga tradotto in inglese – come era una volta - GNP, cioè Gross National Product, almeno, come tutte le manovre di politica economica scritte in inglese, nessuno sa che cosa siano e a che cosa servano. Hanno iniziato con le Authorities. Quella sulla Privacy dovrebbe tutelare la riservatezza degli italiani e viviamo in un Paese dove, se starnutisci al telefono, lo vengono a sapere anche in Cina: vengono intercettati e le conversazioni pubblicate uomini politici, imprenditori, dirigenti, calciatori ed escorts e dicono che la riservatezza è tutelata.

Poi è nata la spending review, che sarebbe il taglio delle spese inutili e credo che per vederne i risultati benefici ci vorranno venti anni; poi c’è il fiscal compact che nessuno ha veramente capito cosa sia, ma dovrebbe ridurre il debito pubblico italiano, che continua a crescere nel frattempo; bellissimo è il job act (questo non lo capirebbero neppure gli inglesi). E così via. Se il PIL si chiamasse GNP saremmo tutti più tranquilli.

La ripresa arriverà quando aumenteranno i consumi interni, che però non possono aumentare se non aumenta il reddito, cioè il PIL – e così continuiamo a girare, non solo in Italia e in Europa , ma in tutto il mondo occidentale e in Giappone. In realtà questa crisi segna la fine di un sistema basato sugli iperconsumi: tutta la società, dalla tv all’educazione, alla forma delle città, ha il fine esplicito di trasformarci tutti esclusivamente in insensati consumatori.
Lo stato del benessere
Questa crisi segna la fine di questo sistema. Il pianeta non lo regge, la morale e la religione – vedi Papa Francesco - lo condannano esplicitamente. Sempre più le persone civili si orientano verso scelte e comportamenti che non sono più puro consumo. E’ meglio così, ma il problema dell’occupazione deve essere visto non più come dipendente da una inattendibile variazione del PIL. O meglio del GNP”.
Questo è l’articolo. Da qui bisognerebbe partire per proporre nuovi modelli e non la solita aria fritta. Che ne pensate?

Giovanni Marradi - Softly
https://www.youtube.com/watch?v=JswbBnkiS00&list=FLNSrLyPMe3ffjMLZJhkN44g&index=107