Archive for gennaio 25th, 2015

LA DOMENICA DEL BOSCO

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Oggi presentiamo una new-entry per i racconti della Domenica del Bosco: Ignazia. É iscritta in Eldy da quando ha preso dimestichezza con il PC e legge regolarmente le storie del Bosco anche se, solo saltuariamente ci onora di un suo commento. Stimolata comunque dai nostri racconti ha voluto lei stessa cimentarsi nello scrivere, raccontandoci questa sua storia che mi sembra ricca di spunti interessanti e che pubblichiamo volentieri invitando la nuova amica del Bosco ad essere più costante anche nell’esprimere il suo pensiero. Grazie!

 

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Ero appena un embrione di donna nel ventre di mia madre quando iniziarono i bombardamenti nella mia città: febbraio 1943. Mio padre che, per effetto degli eventi bellici, era stato richiamato sotto le armi, aveva lasciato questo regalino a mia madre prima di partire, inquadrato nelle forze di complemento della Seconda Guerra Mondiale. Le autorità comunali impartirono i comunicati che chi poteva doveva abbandonare la città verso i paesi limitrofi meno esposti alle bombe e iniziò così lo sfollamento.

 

Bombardiere in azioneBombardiere in azione

 

Mia madre, sposa da appena sei anni e madre già di due bambini, in preda alla disperazione della solitudine, decise di trasferirsi in un paesino al centro della Sardegna che si trovava a pochi chilometri dalla caserma militare dove era stato destinato suo marito, mio padre. La caserma era una postazione strategica dislocata tra i monti e dotata di armamenti antiaereo in difesa di una grande diga di sbarramento del fiume Tirso che alloggiava una importante stazione idroelettrica. Si trattava di un punto sensibile quindi non esente dalle minacce belliche da parte delle incursioni di aerei nemici sia di ricognizione che da bombardamento.

Diga di Santa Chiara sul Fiume TirsoDiga di Santa Chiara sul Fiume Tirso

Secondo le istruzioni ricevute dal marito, non so se per lettera o, molto più probabilmente, per telegramma, mia madre raccolse l’essenziale come stoviglie, indumenti, lenzuola e qualche coperta e, infagottato il tutto, si preparò a partire insieme ad una sua coetanea che si trovava nelle stesse condizioni, anche lei con due bambini: un maschietto ed una femminuccia come mia madre. Si dovevano percorrere circa 150 km. e fu un viaggio avventuroso durato due giorni e una notte con corriera, treno e ancora corriera perché la stazione ferroviaria di Cagliari era stato il primo punto sensibile distrutto dalle bombe e quindi era inagibile. Si era costretti a raggiungere una stazione intermedia del percorso con altri mezzi, proseguire con uno dei pochi treni ancora in servizio e poi ancora con una sgangherata corriera fino alla destinazione finale. Mio padre aveva preparato una casa dove presero alloggio mia madre e i suoi due bambini, mio fratello e mia sorella. Io continuavo a crescere nel ventre materno e vidi la luce qualche mese più tardi in questo paesino sperduto tra le montagne della Sardegna.

 

Piccolo paese sardo tra le montagnePaesino sardo tra le montagne

Al termine della guerra mio padre fu congedato e si poneva il problema del rientro nella città d’origine. Occorreva verificare se la casa dove si abitava prima della guerra non fosse stata distrutta dalle bombe ed era necessario la ricerca di un lavoro. Mio padre ci lasciò al paese e fece un primo viaggio di ricognizione prima di trasferire la famiglia. In una città quasi rasa al suolo e piena di macerie, i muri della nostra casa, situata alla periferia, erano rimasti fortunatamente in piedi e conteneva ancora i principali suppellettili ma tutto il resto era stato depredato: abiti, biancheria, stoviglie… non c’era più niente.

Cagliari 1943  Viale-Regina-MargheritaCagliari - Viale Regina Margherita

Il mio papà, che di professione faceva il panettiere, ebbe a constatare che purtroppo la panetteria dove lavorava prima della guerra e del suo richiamo sotto le armi, era stata distrutta dagli eventi bellici e dei proprietari non se ne sapeva nulla. Prese accordi per il lavoro in un’altra panetteria e decise di far rientrare la famiglia, si ricominciava tutto da capo.

Di tutte queste cose ne sono venuta a conoscenza quando ho iniziato ad avere l’età della ragione mentre i miei ricordi personali risalgono a quando avevo circa 5 o 6 anni, alla fine degli anni ‘40. Sentivo dire dagli adulti che era difficile risollevarsi dalle brutture e dai disastri causati da questa inutile guerra ma io, a quell’età, non potevo capire cosa fosse la guerra, ne subivo solo le conseguenze.

 

Cagliari via Crispi-Squadra di soccorso dopo le bombe (1)Cagliari - Via Crispi e squadra  di soccorso dopo le bombe

 

I ricordi sono particolarmente legati alle emozioni vissute, soprattutto a quelle che hanno provocato delle forti paure ma quelle cerco sempre di allontanarle anche se ogni tanto ritornano a galla.

Racconterò solo qualcuno degli episodi sempre presenti nella mia mente, quelli che, in un modo o nell’altro, penso siano stati utili nella formazione nel mio affacciarmi alla vita: è pur sempre un bagaglio di esperienze.

 

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Mio padre faceva il panettiere e in casa non mancava il pane ma in una famiglia con quattro figli, perché nel frattempo era nata un’altra sorellina, c’era bisogno anche di tante altre cose, era proprio il caso di dire che non si vive di solo pane. Mia mamma ci cuciva dei vestitini e lavorava a maglia per confezionarci qualche maglioncino e delle cuffiette per proteggerci dal freddo, ma aveva però poco tempo per darci le coccole delle quali i bambini hanno bisogno e io ne sentivo particolarmente la mancanza.

 

Primo giorno di scuolaPrimo giorno di scuola

 

Quando avevo sei anni ricordo il primo giorno di scuola: pioveva forte, mia mamma, dopo avermi preparato con un vestitino pulito e un maglioncino nuovo, di quelli confezionati da lei, mi portò a scuola tenendomi in braccio per proteggermi dalla pioggia e non farmi bagnare il mio unico paio di scarpe dismesse da mia sorella più grande e passate a me. In quel momento sentii tutto l’amore della mia mamma che mi stringeva a lei, mi aggrappai al suo collo e non avrei mai abbandonato quell’abbraccio.

 

Il bacio alla mammaIl bacio alla mamma

 

Il distacco fu per me drammatico, arrivati all’ingresso della scuola sentii che qualcuno mi strappava a forza dalla mia mamma e mi depositava nel corridoio che conduceva alle aule. Era il mio primo allontanamento dalla mamma e scoppiai a piangere come se il mondo mi cadesse addosso, non so come riuscirono poi a calmarmi. Allora nella scuola non esisteva la psicologa per aiutare i bambini che presentavano qualche difficoltà comportamentale.  

 

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Nel suo mestiere il mio babbo (lo chiamavamo così), lavorava la notte perché nei panifici, il pane doveva essere pronto al mattino presto per la distribuzione nei punti vendita. Rientrava a casa al mattino, si pranzava tutti insieme poi doveva riposare per riprendere il turno la notte successiva. Affinché non si dovesse disturbare il sonno del babbo costringevano anche noi bambini a metterci a letto e a stare in silenzio. Per me era un supplizio perché avrei preferito mettermi a giocare con le sorelle ma i genitori allora erano molto severi e bisognava ubbidire.

Ricordo che nella vigilia di Natale e Capodanno il babbo non rientrava per il pranzo in quanto era uso fare il pane oltre che nella notte della pre-vigilia, anche durante il giorno di vigilia per avere il pane fresco la sera per il cenone ed essere liberi dal lavoro nel giorno festivo. In questi giorni, mio fratello ed io si andava a portare il pranzo al babbo sul posto del lavoro con un pentolino od altro contenitore adatto e si tornava indietro portando a casa il pane fresco per la famiglia.

 

Il duro lavoro del fornaioIl duro lavoro del fornaio

Erano giornate di dicembre molto fredde e mentre mio fratello indossava un cappotto riciclato dal cugino più grande, io non avevo alcun soprabito ma solo i maglioncini di lana. Dissi a mio fratello che sentivo freddo e lui, sempre di grande inventiva, non si perse d’animo: sfilò il suo braccio sinistro dalla manica del cappotto, che gli stava pure un po’ largo, mi ci fece infilare il mio braccio e richiuse il cappotto, così stavamo al caldo in due, cadenzando il passo camminando abbracciati, mentre si portavano i generi di conforto al babbo sul posto di lavoro. Forse la scena poteva apparire un poco comica ma un proverbio sardo dice:

“Fazzara callenti e arriara sa genti”

Libera traduzione:

“L’importante è stare al caldo anche se la gente ride”.

Avrei tanti altri episodi ma li racconterò un’altra volta, Buona Domenica.

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E. Morricone  - Amapola

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