Archive for febbraio 16th, 2014

LA DOMENICA DEL BOSCO

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All’età di sette anni si iniziavano le lezioni di catechismo. Si svolgevano nel pomeriggio, seduti sulle panche di legno in una cappella della chiesa parrocchiale. Frequentavamo volentieri, non tanto per  il piacere di ascoltare la catechista ma perché prima della lezione riuscivamo a fare una mezz’ora di svago tra noi ragazzini. Il gioco preferito, naturalmente, era la partitella di calcio che si stipulava tra due squadre composta ciascuna di 5÷6 ragazzini. Il campo di gioco era il sagrato della chiesa, allora ancora in terra battuta e si giocava scalzi per non rovinare l’unico paio di scarpe che si possedeva.

 

Sagrato della chiesaSagrato della Chiesa

 

Chiaramente non avevamo un pallone di cuoio o una palla di gomma bensì una sorta di sfera costruita con l’inventiva di qualche genitore che veniva composta con un nucleo di carta compattata a mano per dare una certa leggerezza ed elasticità e avvolta accuratamente con stracci. L’ultimo rivestimento era generalmente costituito da una vecchia calza di lana o cotone, cucita come chiusura in modo da riuscite a tenere il tutto unito. Questa era la nostra palla e per quanto poteva servire, funzionava. Due grossi sassi da un lato del campo di gioco e altri due dall’altro, delimitavano le due porte verso le quali si tirava per segnare il gol.

 

palla di pezzaLa palla di stracci

 

Il possessore di palla fungeva da General Manager, perché era lui che decideva chi far giocare in una squadra e chi nell’altra. Ci si rivolgeva a lui con la classica frase “Mi fais giogai?” (Mi fai giocare?) e la risposta, immancabilmente era “Ita mi honas?” (Cosa mi dai?). Una sorta di breve trattativa con scambio di piccoli oggetti e si formavano le due squadre. I ragazzini giudicati più bravi venivano annoverati nella squadra del padrone di palla, quelli giudicati scarsi nell’altra. In questo modo il risultato era scontato: la squadra del capo avrebbe vinto con 3, 4 gol di scarto. La squadra degli scarti, raramente riusciva a segnare un gol. Mezz’ora di gioco ed era tutto finito… un po’ accaldati ci si rimetteva le scarpe e si entrava in chiesa per la lezione catechistica.

 

La partitaLa partita

 

Un pomeriggio, mentre mi recavo mestamente in chiesa trovai, abbandonata per strada, una palla di stracci bella e pronta, ben confezionata e ancora in buone condizioni. È la mia giornata fortunata, pensai e mi infervorai all’idea che quel giorno sarei stato io il padrone del gioco. In tasca avevo cinque zolfanelli prelevati dalla cucina di casa: erano il tributo che avrei pagato per essere accettato in squadra, non m’importava se in quella vincente o perdente, per me era importante far parte del gruppo giocatori, non essere solo spettatore.

           altra palla di fortuna                                                                                           Palla di straccizolfanelli

     

 

                           fiammiferi svedesi

   

Non appena mi videro arrivare con in mano la palla di stracci fui attorniato da tutta la compagnia. Tutti volevano partecipare al gioco e iniziarono le solite trattative. Si accettava di tutto: una vecchia fibbia, un grosso chiodo, una chiave ed altre piccole cose. Un anonimo ragazzino di quelli che non aveva mai partecipato al gioco e del quale non conoscevo neppure il nome, si rivolse a me con la classica domanda “Mi fai giocare” al che risposi: Cosa mi dai? Mi offrì una piantina non più alta di quindici centimetri con 6/8 foglie e il nocciolo del seme, senza il guscio, ancora attaccato alle radici, dicendomi “Una matta de mindula” (un albero di mandorlo). L’aveva trovata nel vialetto percorso per venire in chiesa e l’aveva sradicata proprio per servirsene come pegno per essere ammesso al gioco.

Naturalmente accettai e quella sera anche lui fece parte di una delle due squadre.

Cercai di amalgamare bene i due gruppi in gioco, senza squilibrare troppo i valori.

Ricordo che era stata una bella partita, a fasi alterne ma tutto sommato equilibrata. con il risultato finale di 4 a 3. La palla di stracci a fine partita era ormai inservibile.

 

Piantina  BLa piantina

 

Dopo la lezione catechistica ritornai a casa e sistemai la piantina in una aiuola del cortile, mostrandola a mio padre il quale mi disse che doveva trattarsi di un pesco e non di un mandorlo. Comunque fosse, ci tenevo a vederla crescere. In quell’aiuola erano nate anche altre piantine dai semi di frutta buttati lì per caso ma la mia era decisamente più bella.

Un giorno, mio padre, che voleva utilizzare quell’aiola per piantarvi degli ortaggi, iniziò a sradicare tutte le piantine nate spontanee ed io, pensando ingenuamente di  dargli una mano, continuai l’opera sradicando, seppure a malincuore, anche la mia piantina che era cresciuta ed era più grande delle altre. “Quella no!” gridò mio padre ma ormai il danno era fatto. Cercando di riparare, feci un fosso nell’aiuola e rimisi dentro la piantina comprimendo la terra attorno alle radici. Mio padre mi disse che ormai si sarebbe seccata.

   

Alberello di pescoEcco come diventò quella piantina......

 

A dispetto delle previsioni quella piantina continuò a crescere e verso il settimo anno ebbe i primi fiori e mantenne quattro bellissime pesche fino alla maturazione. Fu una festa coglierle e mangiarle, dividendole con le mie sorelline. Dall’anno successivo e per moltissimi anni era un piacere vederla fiorire e riempirsi di tantissime pesche, belle, saporite e profumatissime. Altri anni passarono e la pianta era cresciuta tanto che dovevo arrampicarmi sui rami per cogliere i frutti.

Piccola soddisfazione di un ragazzo che si era guadagnato una piantina con una palla di stracci trovata per caso, un giorno, in una via mentre andava alla lezione di catechismo.

 

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Giovanni  Marradi  - Summer

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